La Pasqua è stata come un giro di boa, un momento per virare e misurare la distanza dai mesi che ci siamo lasciati alle spalle. Ci sono state ancora restrizioni, ma sarebbe ingiusto dire di aver vissuto la fotocopia dell’anno scorso. È vero che non ci sono state le gite fuori porta, che l’abbiamo vissuta chiusi in casa in attesa del quotidiano bollettino di morti e contagi. Ma è altrettanto vero che il clima si è fatto diverso.
Alla scaramanzia di un «andrà tutto bene» impersonale e dunque irresponsabile, scritto sperando che lo sforzo sarebbe stato intenso ma breve, si è sostituita la capacità di convivere con il virus. Alle mascherine ci siamo abituati e anche a salutarci da lontano. E le vecchie foto di affollati eventi culturali o sportivi ci fanno uno strano effetto.
Non tutto è andato bene, ma qualcosa inizia a andare meglio. A distanza di dodici mesi, anche nei giorni con maggiori restrizioni il confinamento non è più totale. Non si sono ripetute le immagini inquietanti delle città deserte. Né quelle dei camion carichi di bare. Né quelle più artigianali delle Messe celebrate in diretta streaming dalle chiese vuote, perché i riti della Settimana Santa si sono svolti in presenza.
Restano aperti tanti problemi. Il principale sembra essere il peso economico della pandemia, che per molti si è fatto insopportabile e alimenta la spaccatura sociale tra garantiti e non garantiti. Ma altrettanto importante è il modo in cui la circolazione del virus condiziona la vita dei più giovani. Superata l’improvvisazione iniziale, la didattica a distanza ha compensato il compensabile, ma andare a scuola è un’altra cosa. Abbiamo anche verificato che con i più piccoli non funziona e richiede ai genitori un impegno incompatibile con il lavoro, pure quando si svolge da casa. E poi i bambini e gli adolescenti sembrano sempre più intristiti e a disagio.
A giugno finirà l’anno scolastico, ma si parla di tenere le aule aperte d’estate. I contorni della proposta si stanno definendo, ma l’idea è quella della “didattica leggera”: niente lezioni in senso stretto, ma attività che permettano un recupero degli apprendimenti e della socialità. Le proposte potrebbero essere tante: teatro, danza, lettura, sport. Si tratta di stimolare interessi, di riportare lo sguardo alla ricchezza del mondo al di là degli schermi.
Uno sforzo al quale sembrano poter dare una mano anche gli oratori parrocchiali. E forse è il caso di iniziarci a pensare.
di David Fabrizi, da «Frontiera» n.13 del 9 aprile 2021
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