Il 25 marzo ricorreva la Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, istituita lo scorso anno su proposta del Ministro Dario Franceschini. Un Dantedì che secondo gli studiosi coincide con l’ingresso del Sommo Poeta nella Selva Oscura. E sono tante le iniziative che stanno fiorendo in occasione del settecentesimo anniversario della morte di Dante: editoriali, televisive, radiofoniche, ma anche sui territori, pur nei limiti imposti dalla situazione sanitaria. Tutte strade per avvicinarsi a una figura fondamentale per il Paese, la cui grandezza può addirittura mettere soggezione. Una sensazione che per fortuna si dissolve non appena si sperimenta il piacere della sua poesia.
E il ritorno al testo è senz’altro un suggerimento di questo anniversario. Lo si può intendere anche in senso figurato, come atteggiamento da tenere verso il mondo, da conoscere direttamente e non per sentito dire.
Ma di fronte al padre della lingua italiana vengono in mente anche altre piccole suggestioni. Ad esempio l’urgenza di adottare un linguaggio più sorvegliato, ripulito da esotismi e frasi fatte, ormai logore e inservibili. Vale per tutti, ma soprattutto per chi delle parole fa un mestiere come i giornalisti, gli insegnanti o i politici. Quale concetto, situazione o sentimento non può essere espresso in modo efficace dalla lingua italiana?
E che dire del dialetto? Il fiorentino di Dante è diventato la lingua nazionale, ma nulla fa sentire a casa come parlare il proprio. Perché il dialetto è la lingua dei sentimenti domestici, delle amicizie, del parlare più libero. Per paradosso allora, l’amore per la lingua italiana potrebbe aiutarci a salvare il dialetto dall’equivoco che confonde popolare e triviale, a farne di nuovo la lingua della nostra natura più sincera.
E poi c’è la fede: la lingua della Commedia è bella e profonda perché corrisponde all’intimo pensiero religioso di Alighieri. E la forza dei suoi versi è tale da farci percepire ancora intatto il suo desiderio di Dio, carico di attese, capace di scrivere fin dove il pensiero può arrischiarsi a indagare il mistero. Le parole della Chiesa oggi sono altrettanto capaci di stare al passo dei tempi? Corrispondono alle ansie, ai desideri, alle speranze degli uomini e delle donne di oggi?
Un ultimo pensiero ingenuo di fronte a Dante riguarda i saperi. La Commedia è un compendio di quelli del suo tempo, e fa un po’ invidia alla specializzazione ignorante cui sembriamo oramai costretti. Ma non c’è da vergognarsi: piuttosto potremmo cogliere l’occasione per coltivare in modo fecondo questo senso di inadeguatezza, facendone un spinta al miglioramento piuttosto che alla più triste rassegnazione.
di David Fabrizi, da «Frontiera» n.11 del 26 marzo 2021
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