Cosa imparare dalla pandemia

È passato un anno dall’inizio del primo lockdown e non sembra certo una ricorrenza da celebrare. Ma può essere utile per tirare una linea e tentare un bilancio. La voce più facile da scrivere – molto meno da vivere – è quella dell’economia. Il periodo sembra tutto destinato alla colonna delle passività. Partendo dai dati Istat, la Coldiretti ha quantificato in 130 miliardi i minori consumi degli italiani nel 2020: un crollo dell’11,8% rispetto all’anno precedente. Altrettanto duro è il bilancio sociale. Ciascuno conosce il prezzo pagato per mantenere il distanziamento e prevenire il contagio. Abbiamo dovuto adottare nuovi costumi, imparare a salutarci diversamente, a prendere mille precauzioni. I più provati sono certamente i giovani e gli anziani, che stanno sperimentando una solitudine inedita e non facile da decifrare. Di certo è venuto meno l’entusiasmo dell’andrà tutto bene e delle cantate dal balcone. Dal virus non ci siamo liberati a stretto giro come speravamo e l’estate che si avvicina sarà senz’altro meno spericolata di quella dell’anno scorso.

Tutto male, insomma? Forse no. Una lettura interessante è quella proposta da un lungo articolo di Yuval Noah Harari sulle colonne del «Financial Times». Provando a mettere nella prospettiva della storia l’anno appena trascorso, l’intellettuale israeliano nota una paradossale vittoria dell’uomo sugli agenti patogeni. È vero che le campagne vaccinali dalle nostre parti vanno a singhiozzo, ma non eravamo mai stati capaci di contrastare un virus con un vaccino in tempi così brevi. Né prima d’ora eravamo stati in grado di tenere chiusa in casa l’intera popolazione per contenere il contagio senza che ciò innescasse una carestia o un collasso economico. «Dopo il 2020 sappiamo che la vita può andare avanti anche quando un intero paese è fisicamente bloccato», sottolinea Harari, notando alle spalle di questo risultato la forza del progresso scientifico e tecnologico, a partire dalla tenuta delle infrastrutture digitali.

Una forza che però va compresa e governata, perché la scienza non può sostituire la politica. «Quando si arriva alle decisioni politiche, dobbiamo tenere conto di molti interessi e valori in campo e, poiché non esiste un modo scientifico per determinare quali interessi e valori sono più importanti, non esiste un modo scientifico per decidere cosa dovremmo fare».

Harari vola alto, ma forse ci aiuta a capire anche qualcosa di quaggiù: le approssimazioni nella gestione della crisi, la campagna vaccinale che s’inceppa e gli altri inciampi che ogni giorno ci fanno arrabbiare. E una volta imparato ad allargare il quadro, potremmo anche domandarci cosa abbiamo imparato noi dalla pandemia, evitando magari di darci subito una risposta, di inchiodarci a un giudizio prematuro.

di David Fabrizi, da «Frontiera» n.9 del 12 marzo 2021

(Foto di pedro_wroclaw da Pixabay)

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