Il giornalista? Un mestiere da fare a contatto con la realtà

Antonio Maria Mira, caporedattore, inviato speciale ed editorialista del quotidiano «Avvenire», cura per il quotidiano inchieste e approfondimenti su temi scomodi: intreccio tra problemi ambientali e criminalità organizzata, mafia, immigrazione, gioco d’azzardo. E dicendo la sua in occasione della sedicesima edizione del Festival della Comunicazione delle Paoline e dei Paolini, promosso quest’anno con le diocesi di Molfetta e Rieti, ammette che lo stato di salute del giornalismo non è proprio dei migliori.

Sullo sfondo del discorso c’è il passaggio sui “giornali fotocopia” del Messaggio di papa Francesco per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: «Si è perso molto della nostra professionalità – spiega Mira – probabilmente anche il fatto non siamo riusciti anche a trasmettere quello che noi abbiamo appreso. Io ho avuto la fortuna di imparare in redazione dai miei colleghi più anziani, adesso è molto più difficile». E non solo perché ci sono molti meno giovani nei giornali, ma anche per il taglio dell’informazione, che guarda più ai tweet e alle veline e meno agli approfondimenti. «Ne consegue sicuramente un abbassamento della qualità del nostro lavoro in favore di un’informazione preconfezionata», aggiunge Mira, ammettendo che questa trasformazione accade anche perché il giornalismo d’inchiesta è senz’altro più faticoso.

Ma proprio alla necessità di questa fatica si rivolge il Messaggio del Papa, un richiamo gradito dal cronista perché «solo incontrando le persone c’è la possibilità di raccontare davvero», mentre nel nostro Paese usiamo troppo il “sentito dire”, ci accontentiamo troppo di un lavoro da remoto, davanti a un video. Segno che «A una gran parte dell’editoria, più che di raccontare interessa recepire». Anche in politica, dove il giornalismo parlamentare ha lasciato il passo a un giornalismo delle chiacchiere. E dire che «Basterebbe soltanto andare a cercare le proposte di legge, i provvedimenti, le indagini conoscitive delle commissioni d’inchiesta: ci sarebbe tanto da scrivere, ma sui giornali non lo troviamo»

La situazione è in parte il prodotto di un cattivo rapporto con la tecnologia. «Ci siamo illusi che lo strumento tecnologico avrebbe non soltanto aiutato, e ha aiutato sicuramente molto la nostra professione, ma avrebbe anche compensato la perdita di lettori». Ma se da un lato la rete aiuta per l’immediatezza della trasmissione, per la possibilità di scrivere direttamente là dove i fatti avvengono, dall’altro allontana perché «ci stiamo un po’ viziando, ci porta a essere più fermi, più seduti alla scrivania», e sicuramente non sta aiutando i giornali a vendere di più.

«Quando ho letto il Messaggio del Papa mi è partito un applauso: il mestiere di giornalista lo si fa con con le scarpe, con i piedi, che ovviamente non vuol dire farlo male, vuol dire camminare. E camminare vuol dire esserci, toccare con mano quello che avviene, toccare con mano le sofferenze, le fatiche, le problematiche. Io che mi sono occupato tantissimo delle tematiche relative rifiuti, dico che se uno non sente la puzza dei rifiuti, e soprattutto dei rifiuti che bruciano, non potrà mai capire il dramma della Terra dei Fuochi, delle tante Terre dei Fuochi del nostro Paese. È più faticoso, ma questo soltanto permette di fare un lavoro corretto nei confronti dei protagonisti delle notizie e di quelli che poi sono i destinatari del nostro lavoro: i nostri lettori».

Un lavoro faticoso e a volte rischioso: «tanti colleghi per consumare le suole delle scarpe si sono trovati a sbattere contro pericoli, a vivere da anni sotto scorta, addirittura a perdere la vita. Ma è l’unico modo e sono felice che il Papa ce lo dica, che faccia veramente una grande lezione di giornalismo».

Di suole delle scarpe, con la pandemia, se ne sono ovviamente consumate meno. Ma per Mira il desiderio di uscire non è tanto per tornare al bar o al ristorante, ma «nei ghetti degli immigrati del Foggiano o a Rosarno, per tornare in territori difficili, soprattutto adesso, perché le mafie tenteranno sicuramente di più di fare affari sulla ripresa economica». E poi ci sono anche tante storie positive che attendono di essere raccontate, come «Quelle delle cooperative che gestiscono i beni confiscati nel alla criminalità organizzata». E qui la cronaca serve anche a costruire la memoria. Mira cita la figura di Rosario Livatino, e una cooperativa di ragazzi che nel nome del magistrato «stanno coltivando terreni che lo stesso Rosario Livatino aveva confiscato». Una storia di prima della serie dei lockdown, delle zone rosse: una storia di resistenza, «la storia di giovani che cercano di cambiare la loro terra, che lo stanno facendo bene e che hanno bisogno che qualcuno racconti quello che fanno. Ma bisogna farlo, appunto, andando lì, consumando le scarpe e magari riempiendosele di fango come fanno loro».