«È il cuore che ci ha mosso ad andare, vedere e ascoltare, ed è il cuore che ci muove a una comunicazione aperta e accogliente». Scegliendo «Parlare col cuore» come tema del suo messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, che come tradizione si celebra oggi nella domenica in cui la Chiesa festeggia l’Ascensione, il Papa completa un percorso di temi con i quali ci ha incoraggiati a riflettere sul valore nella comunicazione (massmediale ma anche tra persone) del «Vieni e vedi» (2021) e dell’«Ascoltare con l’orecchio del cuore» (2022). Il “fattore umano” torna (o forse è meglio dire resta) centrale, anche se tutto attorno informazione, social e piattaforme mediali sembrano spingerci a rinunciare alla parte più autentica di noi stessi. Una questione ben chiara a monsignor Domenico Pompili, che di giornalismo e infomazione si occupa da sempre (è stato direttore dell’Ufficio Cei), e oggi è presidente della Commissione episcopale per la Cultura e le Comunicazioni sociali, oltre che vescovo di Verona.
Il Papa ci esorta a «parlare col cuore». Come risuona questo invito in una società fortemente segnata dalla comunicazione con le modalità e il linguaggio dei social network?
Risuona come una provocazione bella e buona perché il linguaggio dei social network è spesso aggressivo, quando non assertivo. In realtà, il Messaggio di quest’anno chiude una sorta di trilogia, tra «andare e vedere», «ascoltare» e «parlare col cuore »: insomma, una sorta di “istruzioni per l’uso”. Papa Francesco non è un esperto di comunicazione, ma è un comunicatore eccezionale. Per questo immagina la comunicazione non come un processo semiotico ma come un evento di prossimità fisica. Per contro, noi abbiamo perso l’abitudine ad ascoltare, ma anche a guardare chi ci parla, a “sintonizzarci” sulle sue frequenze. Stare dietro a uno smartphone ci connette con il mondo più lontano ma rischia di disconnetterci con chi invece ci è vicino: come voler vedere sempre uno sconfinato mare, ma senza mai passare dal porto.
L’informazione oggi sembra preferire i toni forti, la polemica, la contrapposizione, più che cercare un terreno comune. Ha ancora senso parlare in questo contesto di ricerca della verità? O ha ragione chi dice che “ognuno ha la sua”?
Cercare la verità è un desiderio umano troppo radicato per essere neutralizzato da certe logiche urlate che fanno dello scontro stesso la notizia. Certamente ciascuno ha diritto di esprimere la propria opinione, fermo restando che talvolta sarebbe opportuno fare un passo indietro quando non si padroneggiano alcuni argomenti, oppure rinunciare a modalità rancorose che danno ulteriore linfa all’atmosfera di odio che si percepisce, soprattutto in rete.
Cos’è il “cuore” per chi fa comunicazione?
Uno dei più grandi giornalisti del tempo recente, Ryszard Kapuoeciñski, teorizzava che «per fare buon giornalismo si deve essere innanzi tutto uomini buoni, o donne buone: buoni esseri umani. Le persone cattive non possono essere dei bravi giornalisti ». Il cuore, dunque, è la condizione per un giornalismo di nuova generazione che faccia leva non solo sulle competenze tecnologiche ma anche su una apertura cordiale alla realtà. Non a caso è sempre il Papa a scrivere che il nostro tempo «ha bisogno di comunicatori non arroccati, ma audaci e creativi, pronti a rischiare per trovare un terreno comune». Si richiede uno stile personale e non uniformante. E andando controcorrente, se necessario: spesso, oltre a utilizzare il cuore, è bene anche gettarlo oltre l’ostacolo.
Come si riconosce la comunicazione “col cuore” in un mercato che smercia una quantità di informazioni senza precedenti, spesso ad alto tasso di emotività?
Si riconosce dalla sua capacità di fare sintesi tra pathos e logos, cioè tra passione e ragionevolezza. Il cuore è un mix di emozione e di razionalità che non si annullano reciprocamente ma trovano una sintesi originale. Occorre diffidare tanto delle reazioni “di pancia” quanto delle analisi senza empatia. Ai giornalisti il compito di lavorare con credibilità e autorevolezza, ma soprattutto con umanità nelle relazioni. Ai lettori la scelta di distinguere nel mare magnum dell’informazione il vero dal falso. Già Machiavelli, infatti, sosteneva che «ciascuno vede l’apparenza, pochi si rendono conto della realtà».
Ha ancora senso per un vescovo proporre la figura dell’animatore della cultura e della comunicazione nelle parrocchie come servizio nella Chiesa?
Nel Messaggio per l’odierna Giornata mondiale delle comunicazioni sociali si legge che la comunicazione «dal cuore e dalle braccia aperte non riguarda esclusivamente gli operatori dell’informazione, ma è responsabilità di ciascuno». In tal senso credo che ogni attività sia utile, purché serva a mobilitare le energie migliori delle persone. Ben vengano, dunque, figure che all’interno della comunità cristiana con la competenza necessaria fanno da traino a una più ampia educazione ai nuovi linguaggi. Si tratta di una alfabetizzazione che riesce ad abbattere barriere di ogni genere e di cui la Chiesa si è fatta sempre carico nei passaggi nodali dell’evoluzione culturale e sociale.
Qual è il compito oggi dei media promossi dalla Chiesa italiana? E di Avvenire in particolare?
Il compito dei media della Chiesa italiana è di abitare lo spazio pubblico offrendo un criterio di lettura originale e alternativo, non sottoposto a logiche che cozzano contro una visione relazionale dell’uomo e della società. Lo stile deve essere segnato da un tratto gentile, «perché – è sempre papa Francesco nel suo Messaggio 2023 – la comunicazione non fomenti un livore che esaspera, genera rabbia e porta allo scontro, ma aiuti le persone a riflettere pacatamente, a decifrare, con spirito critico e sempre rispettoso, la realtà in cui vivono».
Di Francesco Ognibene, da Avvenire