Dov’eravamo rimasti? Due anni tondi di emergenza, con le infinite tribolazioni attraversate anche dalla Chiesa in Italia, ci consegnano un’eredità complessa con la quale fare i conti. La presenza cristiana e la stessa comunicazione del Vangelo nel post-Covid devono misurarsi col nuovo che c’è tra la gente, anche se spesso non visibile. Ne riflette con noi il vescovo di Rieti Domenico Pompili, a capo della Commissione Cei per la Cultura e le Comunicazioni sociali.
Siamo in una fase di progressivo allentamento della morsa pandemica. Da dove si deve ricominciare a tessere la tela di comunità provate dagli ultimi due anni?
Mi pare occorra prendere la misura dei cambiamenti. La pandemia ha contribuito ad allentare i rapporti sociali, a liberare forze centrifughe. La necessità del distanziamento ha accelerato l’affermazione del lavoro da remoto e della didattica a distanza, ha favorito il ricorso al commercio elettronico e alla consegna a domicilio. Sono cambiamenti importanti, ma non necessariamente negativi. Mettono in crisi stili di vita e realtà economiche tradizionali, ma hanno anche favorito un certo ritorno ai piccoli borghi delle aree interne. Il danno peggiore causato dalla crisi sanitaria va rintracciato nel dilatarsi della forbice sociale: per ricominciare a tessere la tela della comunità occorre impegnarsi per ridurre le distanze sociali, per riequilibrare tante nuove diseguaglianze.
Nel Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni 2022 il Papa parla della centralità dell’ascolto. Come va interpretata?
Papa Francesco mette sul tavolo una serie di problemi. Nota che siamo immersi in un ambiente tecnologico in perenne ascolto, fatto apposta per trasformare in risorsa commerciale i nostri bisogni e comportamenti. All’opposto di questo ascolto interessato c’è quello che la- scia spazio alla persona, che la riconosce sul piano umano e spirituale. A dispetto dell’ascolto automatico, invadente ed economicamente orientato, chi si propone un ascolto autentico deve fare un passo indietro, lasciare spazio, contenere la smania di dire subito la propria. L’ascolto disinnesca la violenza, anche quando si manifesta nella forma del pregiudizio o della prepotenza verbale.
Il Cammino sinodale della Chiesa italiana richiede la capacità di comunicare ciò che si sta facendo. Cosa occorre fare per affrontare con efficacia questa sfida?
Ci vogliono attenzione e coraggio. Attenzione innanzitutto al Vangelo, alla buona notizia che ci svela della vita e del mondo un senso che altrove è smarrito. Da un lato vuol dire accostarsi a Gesù Cristo, senza il quale è impossibile conoscere Dio. Dall’altro porta ad avere cura dei poveri, dell’umanità ferita. Quanto al coraggio, è la qualità necessaria per aprire il dialogo, per compiere le scelte, per nutrire la pazienza che fa andare avanti senza arrendersi di fronte alle difficoltà delle sfide sociali, politiche, culturali, ecclesiali, economiche che ci troviamo davanti.
In che modo la Chiesa oggi può essere un interlocutore culturalmente interessante per la società?
Il Cammino sinodale ne è un buon esempio. Da tempo assistiamo alla crisi dei cosiddetti “corpi intermedi”, alla mancanza di mediazione sociale. Il Sinodo chiama a confrontarsi con un Paese spaccato, le cui anime sembrano ormai incapaci di dialogare. L’obiettivo della Chiesa è sintonizzare il suo messaggio sulle frequenze dell’uomo di oggi, ma non sarà possibile senza cercare le ragioni del nostro vivere insieme, senza affrontare le emergenze rimosse e le urgenze trascurate. Il Sinodo è una porta aperta sulla dimensione sociale del Vangelo.
Si assiste a uno sforzo delle diocesi per riproporre il proprio patrimonio artistico, dalle chiese ai musei. Cosa legge in questo impegno, proprio ora?
Da un lato si tratta della risposta a una forte domanda di punti di riferimento in un tempo di vaste trasformazioni sociali, tecnologiche, morali. Dall’altro c’è senz’altro una maggiore coscienza da parte della Chiesa rispetto all’importanza del suo patrimonio culturale, in senso spirituale, ma anche per la dimensione civile. Si riflette sempre troppo poco su quanto la nostra cultura sia intimamente cristiana: non si tratta solo di conservare, ma anche di mettere a disposizione di tutti il patrimonio della Chiesa affinché possa dare ispirazione a nuove idee e liberare nuove forze e creatività.
La pandemia ha imposto alle comunità cristiane di ricorrere come mai prima agli strumenti digitali. Cos’ha insegnato questo sforzo?
L’emergenza sanitaria ha imposto anche ai più riluttanti un confronto con la dimensione digitale ed è un bene. La rete è un ambiente che la Chiesa deve imparare ad abitare. L’urgenza ha ovviamente suscitato improvvisazione e molte ingenuità: i tentativi di trasmettere le celebrazione in streaming ad esempio, sono risultate spesso goffe e inadeguate. Molti però hanno provato con successo a realizzare piccoli video o messaggi vocali quotidiani con i quali tenere vivo il filo delle relazioni. E il ricorso alle videoconferenze potrebbe favorire la vita di organi consultivi che faticavano a riunirsi anche prima della pandemia.
Si è imposto in questi due anni il tema della selezione delle fonti. Per i cattolici che importanza specifica riveste?
La forza delle fake news è di essere più efficaci delle notizie vere. Arrivano prima e con più forza perché sono sempre sensazionali, o studiate per toccare corde sensibili. Il fenomeno è stato amplificato dalle reti sociali, ma è sempre esistito nella stampa e nella comunicazione. Si potrebbe fare un parallelo con certe truffe, che il digitale ha reso più insidiose e capaci di ingannare anche le persone più smaliziate. L’unico antidoto è la verifica delle fonti, ma non credo che abbia un valore specifico per i cattolici. È un tema che riguarda un’educazione ai media della società nella sua interezza. L’originalità dei credenti resta piuttosto nel riferimento alla “buona notizia”: magari non garantisce di saper riconoscere una notizia vera da una falsa, ma forse protegge le coscienze dall’inquinamento e dai cattivi sentimenti che le fake news vorrebbero suscitare.
La Chiesa dispone di strumenti comunicativi, nazionali e locali, ma spesso sembra che i credenti non diano loro sufficiente attenzione. Perché?
Il mondo della comunicazione è attraversato da una crisi profonda, dovuta a una vera e propria rivoluzione industriale. È il passaggio dall’inchiostro al digitale, e per corrispondere al cambiamento non basta creare equivalenti digitali dei giornali su carta. Il problema è molto più complesso, ad esempio perché le persone non scelgono quasi più i propri canali informativi. La fame di informazione viene saziata dagli algoritmi che scelgono le notizie e le propongono in continuazione, catturando l’attenzione delle persone con il telefonino che vibra di notifiche, o popolando le bacheche dei social network. Le coscienze dei giovani, ma oramai anche del pubblico adulto, oggi si formano così. Costruire una maggiore consapevolezza riguardo a questi fenomeni mi pare il primo passo da compiere.
Cosa direbbe a un parroco o a un consiglio pastorale per motivarli a investire energie sulla cultura e la comunicazione?
Lo scopo della Chiesa, a ogni livello, è l’annuncio del Vangelo. Quello di Gesù è un messaggio chiaro e rivoluzionario: se non suscita una reazione è perché il suo contenuto non passa, perché è come venisse detto in una lingua straniera. Ma la Chiesa deve parlare la lingua degli uomini del presente, qui e ora. Questa è la direzione del Cammino sinodale, che in fondo richiede proprio di compiere un investimento nel senso della comunicazione e della cultura, intese nel senso più ampio.