La terza ondata della pandemia è puntualmente arrivata. A dispetto degli sforzi fatti per prevenire il contagio siamo di nuovo in zona rossa. Un ritorno al confinamento e alle chiusure che mette in difficoltà tante persone, alimenta lo scontento, accresce il cattivo umore. E non sollevano certo il morale gli inciampi della campagna vaccinale, rallentata dalle verifiche condotte sul farmaco marchiato AstraZeneca.
Anche la Chiesa ha le sue difficoltà. A differenza dello scorso anno, il virus non impedirà di celebrare in presenza la Settimana Santa e la Pasqua, ma qualche limite sarà inevitabile, anche nella forma dei riti. Soprattutto, la situazione sanitaria alimenta un certo spaesamento pastorale. Alla fatica dell’incontro sembra corrispondere un limite nell’annuncio. Del bisogno di un rinnovamento nelle forme si parla da tempo, ma ora si fa avanti anche la paura di non riuscire. I concetti di base, le esigenze, le direzioni da prendere sono in realtà ben presenti. Ma la traduzione in pratica è tutta da inventare e l’incertezza dei percorsi alimenta un po’ di pessimismo.
Al quale però non bisogna cedere, perché anche nel perdurare di questa pandemia la Chiesa ha dimostrato di essere un riferimento affidabile. Facendo lo sforzo di comprendere la crisi, innanzitutto, sta aiutando molti a decifrarla più di quanto non sembri. E la stessa efficacia si ritrova anche dal punto di vista materiale, sia con interventi diretti, sia rendendo possibili servizi pubblici di assistenza grazie al supporto prezioso del volontariato cattolico.
Di queste cose bisognerà fare tesoro, sapendo che il vaccino risolverà il problema sanitario, ma non farà certo muovere all’inverso le lancette degli orologi. Tanti cambiamenti avvenuti in questi mesi sono ormai acquisiti nei nostri stili di vita. Quote di lavoro agile e da remoto, di didattica a distanza e di commercio elettronico sono probabilmente destinati a restare, insieme al processo di smaterializzazione della pubblica amministrazione o dei pagamenti. E forse resteranno vive per qualche tempo anche la diffidenza per gli assembramenti e le norme igieniche adottate in questi mesi difficili, mentre già si parla di “passaporto vaccinale”.
Come abitare questa nuova realtà è un problema aperto. Qualcosa si vede in Spagna, dove si sta sperimentando, a parità di stipendio, una settimana lavorativa di 32 ore da distribuire su quattro giorni. Sembra strano in un momento in cui l’urgenza è quella di rilanciare l’economia: il buon senso direbbe che bisogna lavorare di più, non di meno, ma si ritiene che aumentare il tempo libero accresca la qualità della vita e dunque la possibilità di spendere. Le 32 ore iberiche, inoltre, permetterebbero la riqualificazione della forza lavoro, che nel tempo libero potrebbe aggiornarsi meglio sull’uso delle nuove tecnologie. E di fronte al dilagare dell’Intelligenza artificiale nelle mansioni più ripetitive, la riduzione di orario a parità di salario consentirebbe di ottimizzare le risorse senza affossare il potere d’acquisto e quindi la domanda interna. Non bisogna poi dimenticare che lavorare meno aiuterebbe a ridurre l’inquinamento e di conseguenza il cambiamento climatico.
Al momento è difficile prevedere se l’esperimento spagnolo avrà l’esito sperato, ma l’atteggiamento sembra quello giusto: affrontare il cambiamento senza troppa nostalgia, con creatività, pochi pregiudizi e facendosi carico di qualche rischio.
di David Fabrizi, da «Frontiera» n.10 del 19 marzo 2021
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