In difesa della privacy

La riservatezza sembra essere in cima alle preoccupazioni di tanti, sicuramente a parole, un po’ meno nei fatti

Tra gli argomenti più consumati e forse meno compresi dei nostri anni c’è quello della privacy. In effetti, la diffusione pervasiva delle tecnologie digitali ha suscitato un’esigenza che fino a pochi anni fa era molto meno sentita. Il problema però è concreto, perché ha a che fare con il potere che diverse realtà hanno di analizzare, manipolare e vendere enormi quantità di dati personali. La privacy, tuttavia, viene sempre più spesso invocata come foglia di fico con cui coprire altre esigenze. L’ultima in ordine di tempo è quella straordinaria del green pass, uno strumento di gestione della pandemia sicuramente imperfetto, ma che punta a garantire l’esercizio delle attività riducendo per quanto possibile il rischio di nuovi contagi. Una soluzione che trova opposizione di alcuni settori della società appellandosi, tra le altre cose, all’argomento della riservatezza. Sul tema, fin dall’inizio, si era in realtà già mosso il Garante per la Privacy che certifica la corretta gestione dei dati personali e la loro “minimizzazione” quando la validazione della carta verde avviene tramite l’app ufficiale VerificaC19, rilasciata del Ministero della Salute.

Ma al di là degli aspetti tecnici e giuridici, è interessante notare che – favorevoli o meno al Green Pass – una grande mole di informazioni su noi stessi la forniamo spontaneamente a realtà molto meno riconoscibili e rassicuranti del ristoratore o del datore di lavoro. Accade ad esempio ogni volta che compiliamo i moduli per accedere ai servizi online. In altri casi, informazioni sul nostro conto le cediamo involontariamente, perché si possono ricavare dalle abitudini di navigazione su internet e dall’uso che facciamo dei social. Spesso non servono analisi raffinate: le nostre pagine Facebook o Instagram hanno nome e cognome e un mucchio di foto dalle quali si ricava dove abitiamo, cosa mangiamo, chi frequentiamo e quali posti visitiamo. Tutto messo a disposizione con sconcertante leggerezza.

E non accade solo nella rete: non sarà che grazie alla tessera a punti che passiamo alla cassa, per ottenere qualche sconto o qualche premio, il supermercato costruisce il nostro profilo di consumatori arrivando a conoscere i nostri gusti e le nostre abitudini? E la “scheda fedeltà” dal benzinaio non informa le compagnie petrolifere su quanto usiamo l’automobile? A proposito di macchine, quanti hanno installato un dispositivo di localizzazione satellitare sotto il cofano per ottenere qualche nuovo servizio o uno sconto sull’assicurazione e quanti usano il Telepass lasciando contare ai gestori i propri viaggi in autostrada?

Quando si ricevono chiamate moleste che invitano a cambiare fornitore del gas o della luce, è quasi certo che i numeri di telefono ai call center li abbiamo dati noi stessi, fornendoli a qualche servizio che apparentemente non centra nulla. Qualcosa di questa continua intrusione la dicono anche le pubblicità personalizzate che si ricevono nella posta elettronica e nelle app gratuite sul telefono. A proposito: quanti autorizzano senza pensarci due volte l’accesso alla rubrica, alle foto, al microfono ogni qual volta installano un nuovo giochetto sullo smatphone?

Si potrebbe proseguire l’elenco fino alla noia: il punto è che è la paura di essere schedati è legittima ma, se davvero ci tenessimo, dovremmo essere capaci di una coerenza che al momento tarda a mostrarsi e spesso viene sacrificata in nome della convenienza o della vanità.

di David Fabrizi, da «Frontiera» n.39 del 5 novembre 2021

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