La comunicazione? Sia preventiva, lunga e plurale

È toccato a monsignor Pompili – in quanto presidente della competente Commissione episcopale della Cei, oltre che come pastore di una delle due diocesi che assieme alla Famiglia Paolina ha organizzato l’iniziativa – tenere, sempre online, l’intervento conclusivo del Festival della Comunicazione, richiamando, proprio nella domenica in cui cadeva la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, la grande attualità del messaggio del Papa, con la sua forte «provocazione» a comunicare «incontrando le persone dove e come sono».

Un invito che diventa particolarmente pressante, ha tenuto a dire il vescovo Domenico, quando si tratta di affrontare esperienze drammatiche, tipo quella del sisma vissuto nel centro Italia nel 2016. Esso è stato pure «il primo vero terremoto sociale in cui non soltanto gli organi istituzionali dell’ azione dei media ma soprattutto le persone singole sono diventate i primi comunicatori di questa tragedia».

Guardando alla “lezione” che il dramma del terremoto ha lasciato, tre, secondo monsignore, i rischi da evitare: quello di «una comunicazione doloristica» che vada a indugiare sulle sofferenze «con morbosa curiosità»; un comunicare che generi allarmismo, tra l’altro pigiando troppo su alcuni aspetti a discapito di altri magari più importanti; e poi «la comunicazione politica, cioè una polarizzazione che ha impedito di guardare al problema del terremoto e ha fatto sì che invece ci si dividesse a seconda di chi stava al governo rispetto alla dinamica della ricostruzione».

Se questi sono i rischi, la “lezione” del sisma, ha proseguito don Domenico, può offrire d’altra parte anche delle opportunità. Anzitutto «quella di una comunicazione preventiva: è importante che in questi territori in ballerini cresca il livello di debolezza della gente rispetto a quello che può accadere, facendo sì che, dalla ricostruzione fino a forme di autodifesa (da imparare sin da quando si sta a scuola) si cerchi di stabilire dei livelli di convivenza con questa dinamica naturale con cui saper convivere».

Una comunicazione dunque che sappia educare le persone, preparandole «a vivere in un contesto in cui il rapporto con la natura deve essere sapientemente ricostruito». E poi la pazienza di una «comunicazione lunga: per comprendere e conoscere una realtà in evoluzione come un territorio ferito dal sisma è necessario che l’attenzione non sia circoscritta ai primi momenti, ma che abbia la capacità di distendersi nel breve, nel medio e nel lungo periodo».

Ed è facile che le notizie invecchino e il tema del terremoto venga «cancellato dai radar dei circoli mediatici a favore di altre emergenze». Serve invece la pazienza e la meticolosità di una comunicazione ben diluita, «che consenta di monitorare passo dopo passo il cammino della ricostruzione».

A ciò, ha ricordato Pompili, punta quella “carta di Rieti” che ben si sposa con l’invito di Francesco a un’informazione che vada “sul vivo”: essa infatti fissa «parametri fondamentali perché si possa fare comunicazione incontrando la realtà anche in un contesto drammatico come quello del terremoto».