La voce del padrone

Quarant’anni fa Franco Battiato pubblicava La voce del padrone: più che un disco, una pietra miliare della musica italiana. Sette canzoni praticamente perfette: insieme intelligenti e orecchiabili, persino ballabili. La musica fa tesoro con equilibrio del meglio di quegli anni mentre i testi lasciano sempre spiazzati: sono composti attingendo ad altre canzoni, a slogan, rubando frasi e parole ai titoli dei libri, con richiami alla politica, alla filosofia, alla religione. Il tutto mescolato con abilità, giocando su accostamenti sorprendenti e ambigui, al punto che non si capisce mai fino in fondo se ci si trova davanti al gusto per il puro nonsense o se invece si tratta di accoppiamenti giudiziosi.

Forse è solo un modo per rispettare l’ascoltatore, per lasciargli libertà, per ricordargli che sta a lui il compito di decifrare la realtà, di scegliere il piano di lettura. Fin dal titolo, che richiama l’iconico logotipo dell’etichetta discografica His Master’s Voice. Nel disegno, il cane che riconosce il padrone dalla tromba di un grammofono allude all’idea dell’alta fedeltà musicale e sonora. Ma la frase suscita inevitabilmente il problema dei rapporti di forza tra governato e governatore. Allude a percorsi di emancipazione sociale, ma anche personale: alla lotta di classe come a quella intima per il dominio di sé. In uno stratificarsi di significati che dal 1981 giungono fino a noi.

I padroni dell’oggi sembrano il Coronavirus e la fatica di vivere che ci mette addosso, ma anche l’invadente onnipresenza della tecnologia, capace di condizionarci ben oltre la soglia della consapevolezza, oppure il dominio della logica economica, che ancora riesce a tenere sotto scacco ogni altro valore. E poi i media, che dettano l’agenda e indirizzano le opinioni e i pensieri.

Con la leggerezza della poesia, Battiato insinua la critica, aiuta a riconoscere come stanno le cose. Misura la «minima immoralia» di chi si crede «figlio delle stelle» e si scopre «pronipote di sua maestà il denaro»; racconta generazioni spaesate, disposte a sventolare «bandiera bianca» pur di trovare «un centro di gravità permanente»; denuncia il livello demenziale delle «tribune elettorali».

Insieme però, scorge qualcosa di più bello e profondo: la capacità di riconoscere nel volo che gli uccelli fanno «nello spazio tra le nuvole» le «regole assegnate a questa parte di universo», quelle «geometrie esistenziali» che nella musica fanno riconocere la voce del Padre a dispetto del padrone.

di David Fabrizi, da «Frontiera» n.14 del 16 aprile 2021

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